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I racconti di p. Jack

Capitolo III: “Ballarò”

Tanti anni fa accompagnai un mio amico, vecchio missionario di circa 70 anni, a visitare Napoli, Forcella e Port’Alba. Era italiano ma aveva passato quasi tutta la sua vita in lebbrosari verso la Cina, Macao e Formosa. Pipa in bocca, mani dietro la schiena, camminava bene… mi disse:” se fosse in Occidente sarebbe infetto, sporco e puzzolente, ma siccome siamo in Oriente è proprio bello, pittoresco, sì proprio così, un bel “suq”. Anche io come lui “ho girato sempre con la sua visione del mondo”.

Il più bel suq del mondo è a Stambol. Solo che nel ‘84 era ormai una gioielleria (bazar), c’era un servizio di polizia quasi come in quello di Oroscialim (Gerusalemme), inutile dire che quando è bello e pulito fa più suq.

Il suq diventa interessante quando sei il solo straniero che ci entra e quando i venditori ti guardano con stupore perché non hanno niente da venderti. Possiamo quindi dire senza timore che i suq non esistono quasi più, me ne sono reso conto varie volte nelle zone in cui vivevo sia nei Balcani che in Africa.

Altra caratteristica del suq era che è difficile entrarci, per quello che noi chiamiamo tanfo. Ci voleva il tempo di ossigenazione per entrare e spesso ci entravo da solo. Nel deserto, lì ci sono i suq, ma per entrar lì devi travestirti come uno di loro, con la kefiah e la tunica (gelbab), grossi occhiali neri… e stare zitto.

Ci sono andato alcune volte. Specialmente all’incrocio delle piste tra Sudan e Ciad dove anche gli indigeni avevano paura di passare. Una volta volevo comprare elettronica, ma quando mi dissero che sulla pista di ritorno in quei giorni erano appostati i banditi, rinunciai. Si avvisavano col Turaya …e ti aspettavano. Quando succedeva bastava, a volte, dire che ero un marabù bianco ed ero salvo, ma non sempre.

Ma torniamo a Ballarò. Sarà un caso ma ho controllato quattro guide di Palermo, niente, alla quinta ho trovato qualcosa, un po’ pesante, ma dà l’idea di cosa fosse per l’autore.

L’ho trovato di seconda mano il libretto, sui banchetti di via Libertà, dai “bouquinistes”: Guida pratica di Palermo, per Enrico Onufrio. Morì a 27 anni. Si arroga il diritto di aver scritto quello che scrisse perché “semplicemente è Guida del mio paese”.

Per cominciare Ballarò non esisteva, faceva parte di Albergheria. Probabilmente è il nome di un paesello di origine araba vicino Monreale. “E’ difficile spiegarlo”, dice, ma “è il serbatoio delle nostre miserie e delle nostre sozzure, tutto difetta, aria, vitto, l’educazione, le vesti, il giaciglio. Albergo di miserie, fucina di prostituzione e latrocinio, controllato continuamente dalla polizia. Per aggirarsi qui bisogna essere attratti dalle cose brutte e tristi. Più che nelle vie principali, Albergheria è caratteristica nel labirinto dei suoi chiassuoli e nei suoi vicoletti, laddove piede borghese non penetra, aria pura non aleggia, parola gentile non si ascolta.

Ma oggi molto è cambiato, certo si sono ancora le ferite della guerra, non ci ho mai visto un vigile, se lo gestiscono da soli con le loro regole, ma i turisti ci passano con piacere, l’animazione è assicurata da nuovi residenti bengalesi e africani, è un vociare continuo, un annunciare le qualità dei prodotti, sempre belli che si slargano nelle putìe, sui marciapiedi e per strada orgogliose della loro bellezza. E’ certamente più gradevole passeggiare qui che in via Libertà. Qui ho già fatto conoscenze e qualcuno mi chiama e mi saluta.

Mi ricorda la figura di una bellissima signora che solenne dominava sulla sua montagna di carne di cammello che mi disgustava, ma lei era come fosse nell’Oreficeria di Stambol.

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